Friday, March 15, 2013

Iran e questione nucleare. Siamo alle solite o stavolta è davvero lecito sperare?




E’ ripreso con l’incontro organizzato il 26 e 27 febbraio ad Almaty, Kazakistan, il dialogo sul problema nucleare fra l’Iran e il gruppo del «5+1». Le trattative con i cinque Paesi aventi potere di veto all’ONU più la Germania si erano interrotte nove mesi fa, in occasione del meeting di Mosca il 18 giugno 2012. La due giorni in Asia centrale è servita per porre nuovamente sotto i riflettori quell’annosa questione che, a causa del braccio di ferro in atto fra i diversi attori che ne sono protagonisti, sta ormai da troppo tempo lasciando strascichi sulla situazione economica dell’Iran – nel 2012 le vendite di petrolio si sono più che dimezzate e la valuta interna ha perso metà del suo valore[1]. Il vertice kazako è solamente un primo step di un percorso che porterà le sette potenze ad incontrarsi ad Istanbul il 18 marzo e poi nuovamente ad Almaty il 5 aprile[2].
I decisori iraniani vivono la questione nucleare come una ragione esistenziale. Raggiungere la piena capacità nucleare consentirebbe al Paese di alleggerire non di poco la sua dipendenza dalla risorsa su cui si regge la sua economia e che ne fa un rentier-state: il petrolio. Non sono pertanto disposti a rinunciare al programma e su questo punto c’è unanimità fra le varie fazioni di regime. Secondo la posizione ufficiale, l’energia nucleare serve all’Iran per scopi civili, come fonte di energia alternativa per il fabbisogno nazionale. D’altra parte, le potenze occidentali, e gli Stati Uniti in primis, non sono convinti della natura pacifica del programma e temono che dietro alla dimensione civile del programma ve ne sia una militare; la quale, se sviluppata fino in fondo, renderebbe l’Iran un Paese dotato di una ben maggiore capacità negoziale nelle questioni regionali ed internazionali – storicamente, il vero obiettivo strategico del suo establishment. Infatti, al momento, l’isolamento dell’Iran dal punto di vista economico mina fortemente la sua capacità politica persino nello scenario mediorientale. Va però sottolineato che il 5+1 manca di compattezza e infatti l’Iran negli ultimi anni ha sempre potuto contare sulla collaborazione (o, meglio, sulla mancata contrapposizione) di Cina e Russia, che sono importantissimi partner commerciali.
Di fronte a questa situazione, la strategia dell’Occidente diventa quella di limitare i danni. La soluzione che accomodi tutti, come da tempo si ripete, potrebbe essere quella di consentire all’Iran di continuare ad arricchire l’uranio non oltre i limiti «di sicurezza», aprendo però il suo territorio a più incisive ispezioni ai siti nucleari che destano maggiore sospetto. Si ricorderà come, in occasione degli incontri con l’AIEA all’inizio del 2012, l’Iran fu restio a consentire ai delegati dell’Agenzia ONU di visitare il sito militare di Parchin. Finora è stato difficile trovare un accomodamento che lasciasse tutti soddisfatti; le soluzioni win-win cercate da Obama tra il 2009 e il 2010 si sono risolte in un nulla di fatto. Nel frattempo, l’Occidente ha perseverato con la politica delle sanzioni, alla quale, cionondimeno, Russia e Cina si sono sempre opposte col risultato che l’economia dell’Iran si è sempre più legata a quella di questi due giganti.
Tuttavia, stando alle dichiarazioni di alcuni protagonisti dell’incontro di Almaty, qualcosa sembra essere mutato rispetto a prima. Il gruppo del «5+1» chiede una battuta d’arresto nel processo di arricchimento dell’uranio al 20%[3] – livello con cui risulta difficile costruire una bomba nucleare efficace, ma serve piuttosto fabbricazione di isotopi medici per curare i malati di cancro. Dal regime di Tehran si esige la chiusura della centrale di arricchimento dell’uranio di Fordo (nei pressi di Qom) che si trova sottoterra[4]; il sito risulterebbe infatti inespugnabile in caso di attacco militare da parte di Stati Uniti e Israele[5]. In cambio, all’Iran è stato concesso un concreto alleggerimento delle sanzioni sull’oro e sui metalli preziosi. L’offerta potrebbe essere la giusta occasione per allentare la morsa che soffoca l’economia iraniana, al punto che il negoziatore iraniano Saeed Jalili, si è detto ottimista definendo l’incontro come «un punto di svolta». Effettivamente, questa è la prima volta che all’Iran viene proposto un sostanziale allentamento del regime delle sanzioni. Di fronte ad un «5+1» che dimostra di tendere la mano, sarà vitale per l’Iran dimostrare di saper interpretare la sfida, cambiando atteggiamento e accettando la richiesta che fino all’anno scorso era stata ripetutamente respinta. Dopotutto, questa strada si fa via via più imperativa sia in ragione della situazione economica, sia alla luce del problema costituito dalla sempre più consistente mancanza di medicine[6].
Eppure, visti i precedenti su questo stessa issue, urge molta prudenza, occorre ridimensionare le aspettative circa esiti positivi ottenibili al termine del processo negoziale. Per esempio, va ricordato come prima del vertice alcuni funzionari iraniani, fra cui l’influente parlamentare Ala’eddin Burujerdi, si siano espressi in maniera chiara contro la chiusura della centrale nucleare di Fordo[7], sito evidentemente irrinunciabile. Finora, effettivamente, né l’Iran né tantomeno l’Occidente hanno mostrato di voler recedere dalle proprie posizioni e, pertanto, il trade-off fra alleggerimento delle sanzioni e arresto del programma nucleare rimane irrisolto. Come già ricordato, il programma nucleare per l’Iran rappresenta una ragione esistenziale e gli uomini dell’establishment non si stancano mai di ripeterlo. Ribadendone la natura pacifica, anzi, Tehran afferma l’inalienabilità di quel diritto appellandosi al Trattato di Non Proliferazione nucleare. L’Ayatollah Khamenei ha recentemente ribadito che accettare le condizioni poste dall’Occidente significa arrendersi alla sua volontà e ciò è inammissibile. Secondo la Guida suprema, l’Iran non potrà mostrarsi ragionevole finché l’Occidente non «rinuncerà ad un atteggiamento di prevaricazione», non «commetterà più azioni malvagie» ma «rispetterà la volontà del popolo iraniano»[8].
La retorica ufficiale, per quanto aspra e sovente esagerata, rispecchia semplicemente l’elemento che pesa di più nelle relazioni fra Iran e Stati Uniti: l’immagine negativa che i contendenti conservano rispettivamente l’uno dell’altro. Gli oltre trent’anni di confronto ideologico hanno portato i due soggetti a vedere nelle intenzioni dell’altro piani diretti a minacciare la sicurezza nazionale. I continui fallimenti nel tentativo di risolvere la questione nucleare – per effetto anche della radicalizzazione delle forze che hanno controllato la politica in entrambi i Paesi nel decennio seguente agli attentati del giorno 11 settembre 2001 – hanno sedimentato l’«immagine del nemico» confermandola in ogni occasione in cui i due avversari si sono relazionati l’uno con l’altro[9]. Tutto ciò ha finito per minare quasi irrimediabilmente la fiducia reciproca.
Tuttavia, va detto che, realisticamente parlando, le possibilità per una soluzione negoziale esistono. Per gli Stati Uniti si tratta di far ricorso alla cosiddetta «diplomazia coercitiva» che, utilizzando con Tehran una dose equilibrata di bastoni e carote, scongiuri due esiti implausibili: un Iran dotato della bomba ovvero il conflitto militare. Le iniziative di Obama all’inizio di questo secondo mandato lasciano sperare. Ma è necessario che questa volta si arrivi fino in fondo, senza più tentennamenti.



[9] All’interno del campo della IR theory si è da tempo sviluppato uno specifico indirizzo d’impronta cognitiva che focalizza l’attenzione sul concetto di «immagine del nemico» e sul fenomeno della «cognitive consistency». Su tutti, si vedano i lavori di Ole Holsti e il monumentale Perceptions and Misperceptions in International Politics di Robert Jervis (1976). 

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